Jean-Marie Straub è stato senza alcun dubbio una delle figure più vicine al Filmstudio e fu una delle voci più arrabbiate quando il cinema venne fatto chiudere.
Abbiamo trovato questa testimonianza, tratta da ALIAS de Il Manifesto del 5 agosto 2017 in cui vengono presentati alcuni estratti dalla monografia “Straub/ Huillet cineasti italiani” di Piero Spila (Falsopiano).
Ci piace riportarne alcuni brani perchè l’intervista venne realizzata proprio all’interno del Filmstudio e con Straub c’era anche sua moglie Danièle Huillet, scomparsa nel 2006.


Dalla trascrizione del dibattito al Filmstudio il 24 giugno 2001

(Jean-Marie Straub): Il nostro rapporto con il Filmstudio è di fedeltà, dato che a Roma abbiamo abitato a cento metri di qui, a Piazza della Rovere, per dieci anni, dal 1969 al 1979. La sera venivamo qui per vedere dei film bellissimi e rari, come un Mizoguchi senza sottotitoli ed in sala eravamo in quattro. E una volta, proprio nella sala dove ci troviamo stasera abbiamo fatto due proiezioni in anteprima di Othon, il nostro primo film girato a Roma, anche se parlato interamente in francese. È stato girato in esterni, sul Palatino e nei giardini di Villa Pamphili. In quell’occasione la sala era piena di gente, c’erano Bellocchio, Bertolucci, Moravia, Siciliano, e alla fine il pubblico era abbastanza contento. Però durante il dibattito, dopo una mezz’ora di interventi tranquilli, due persone in fondo alla sala, un uomo e una donna, si sono alzati in piedi e indicandomi con un dito hanno urlato: «Signor Straub, siamo insegnanti della scuola francese di Roma e vogliamo dirle che nel suo film non c’è una sola parola francese. Viva Corneille e viva la Francia». E detto questo se ne sono andati, uno dietro l’altro in fila indiana, sbattendo la porta.

Come è nata in voi la scelta di venire in Italia e di lavorarci?

Non è stata una scelta ma un incontro. La scelta è stata di lasciare la Germania, dopo undici anni, primo per cambiare aria, secondo perché avevamo dei progetti da realizzare. In particolare c’era l’idea di girare Othon, dalla tragedia di Corneille, in lingua francese ma in Italia. L’idea non era però il testo di Corneille, ma proprio di fare le riprese a Roma, su una certa terrazza che conoscevamo, il Palatino. In quel periodo, parallelamente alle riprese, sono nati progetti di altri film girati in Italia, Lezioni di storia e Mosè e Aronne.

In un’intervista avete detto che l’Italia è il paese più tragico che avete conosciuto. Cosa intendevate?

(Daniel Huillet): Ho detto, più esattamente, che in Italia c’è una luce tragica, che però in quasi tutti i film italiani viene ignorata o, peggio, viene tradita, ammorbidita. Comunque, è vero, in Italia c’è la tragedia e anche la farsa, ed è quello che amo.

Nella vostra filmografia ci sono film molto diversi tra loro, in cui spesso è difficile trovare una linea comune …

(J.M.S.) Tutti i film che abbiamo fatto costituiscono un ventaglio che arriva da un certo punto ad un altro. Ad ogni film tentiamo di allargare un po’ di più questo ventaglio, a volte si tratta di pochi millimetri, in altre si tratta di centimetri. Certo la visione è sempre diversa. In Operai, contadini sono in scena dodici personaggi, ed è come avere dodici visioni diverse.

In certi vostri film la recitazione ha una cadenza molto particolare, gli attori non sembrano naturali.

(J.M.S.) Niente è naturale, niente. Se tu vedi un film che ti dà l’illusione di vedere qualcosa di naturale, vuol dire che quello che lo ha fatto è un mascalzone. Niente nel cinema può essere naturale, qualcuno può dare l’impressione di farti vedere la realtà dal buco della serratura, ma quello è un pornografo.

Nel vostro cinema l’impressione è di vedere sempre immagini molto piene, solide, accurate …

(J.M.S.) Nelle inquadrature che facciamo tutte le cose che le compongono hanno gli stessi diritti, questa è la democrazia. È la stessa cosa che io dico all’inizio di ogni dibattito col pubblico: per noi tutte le domande fatte dagli spettatori meritano la stessa attenzione. Se tu vai al cinema per vedere un film devi essere costretto ad accordare la stessa attenzione a una lucertola, una mosca, l’aria che cambia, una macchia di luce o di colore che si posa su un attore, che non è mai interessante per se stesso, perché l’attore non è il centro dell’universo, è solo una piccola parte dell’inquadratura: per noi ogni centimetro quadrato del fotogramma ha la stessa importanza, non può essere che il naso dell’attore abbia un’importanza maggiore. L’uomo non è mai stato al centro dell’universo, ha cominciato a credere di esserlo nel Rinascimento, e a quel punto ha cominciato a saccheggiare il nostro pianeta. Il lavoro dell’artista consiste nel materializzare delle sensazioni, più esse sono materializzate in maniera forte, precisa, più quell’artista fa bene il proprio lavoro. In questo modo di procedere la tecnica non ha nessuna importanza, è solo un mezzo. In certi film per il 90% non si vede nulla sullo schermo, vuol dire che quelli che hanno fatto quei film non vedevano nulla e dunque sullo schermo non potevano lasciare nulla. Essi filmano prima di vedere. E poi delegano tutto alla tecnica pensando che essa possa fare il lavoro per loro. Ma la tecnica risponde solo se dietro c’è un cervello, se c’è un cuore, se c’è gente che ha delle sensazioni, sentimenti, rabbia, amori. Se non c’è, la tecnica non esiste.

(…)

È stato detto che «Operai, contadini» è il primo film muto del cinema sonoro. Mi piacerebbe sapere perché

(J.M.S.) Tempo fa ho letto un’intervista rilasciata da Godard al direttore di Libération, in occasione della morte di Hitchcock, in cui diceva che Hitchcock era l’unico cineasta della sua generazione capace di tornare a fare dei film muti. Allora io penso che in Operai, contadini la ricchezza visiva vada ben oltre quello che si sente. Nel film si scopre che l’immaginazione è la cosa più pretenziosa che noi ci portiamo dietro, la più delirante, quella che alla fine vale meno, perché la realtà ci regala di continuo un’infinità di cose sorprendenti, la realtà è mille volte più ricca di qualsiasi immaginazione. Se uno crede di essere ricco grazie alla propria immaginazione, in realtà è solo un povero cretino perché le forme che si trovano in natura hanno messo secoli a formarsi in quel modo, e hanno una ricchezza irraggiungibile.

Una festa popolare

L’incontro di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet che qui viene riproposto si svolse in occasione di una rassegna dedicata al loro cinema organizzata dal Filmstudio ’80, in collaborazione con l’Ambasciata di Francia e il Comune di Roma. All’organizzazione aveva fattivamente partecipato anche Americo Sbardella, uno dei fondatori del Filmstudio e un caro amico, scomparso proprio in questi giorni e che voglio ricordar con gratitudine e affetto.

La serata dell’incontro, il 24 giugno, era una serata assai particolare perché nella città nelle stesse ore si festeggiava la vittoria dello scudetto della Roma nel campionato di calcio di seria A, e centinaia di migliaia di tifosi avevano invaso le strade e le piazze, e in particolare i cortei delle auto procedevano a passo d’uomo e con i clacson spiegati per il lungotevere che fiancheggia Trastevere (e il Filmstudio) e porta verso il quartiere di Testaccio dove si stava organizzando la grande festa popolare che sarebbe durata tutta la notte.

Io per raggiungere il Filmstudio, dove avrei coordinato l’incontro, avevo deciso di arrivarci a piedi, mentre Jean-Marie e Danièle erano stati bloccati per più di un’ora in un gigantesco ingorgo di traffico dalle parti della Piramide.

Conoscendoli avevo previsto il loro malumore (lo scandalo per un piacere così effimero), e invece mi accorsi in quell’occasione di conoscerli ben poco, perché li trovai divertiti e quasi eccitati per essere stati coinvolti fisicamente in quella spontanea manifestazione popolare.

La situazione, nella piccola sala del Filmstudio, era comunque singolare, con noi chiusi all’interno che parlavamo dell’assolutezza del cinema e del primato della realtà, delle ombre convesse di Cezanne e della indisponibilità dei critici cinematografici ad evadere dal loro pigro specialismo, mentre da fuori arrivava sempre più forte il rumore dei cori dei tifosi impazziti di gioia.

Era realtà anche quella, coinvolgente e piacevole come la festa di Testaccio, che raggiunsi subito dopo senza però riuscire a togliermi dalla testa il sorriso sorpreso di Jean-Marie e Danièle.

Fonte: https://ilmanifesto.it/jean-marie-straub-pardo-donore-alla-carriera

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